di Rita Ciatti.

Un cinghiale si disseta a una fontanella di una famosa Villa romana adibita a parco pubblico, un gabbiano scende da un tetto per andare a raccogliere un pezzetto di pane, alcuni gatti, la coda a punto interrogativo in segno di gioia, corrono fusacchiando verso il gattaro che tutte le sere gli porta da mangiare, una fila di elefanti bardati di rosso e blu e montati da umani sfilano lungo i Fori Imperiali e arrivano a Piazza Venezia, tra una folla festosa ed esultante con l’immancabile telefonino pronto in mano a scattare una foto.

Non è lo scenario di una fiaba moderna, ma quello di una società all’incontrario, sbagliata e specista, dove le prime tre situazioni vengono viste con preoccupazione, diventano fonte di paure irrazionali amplificate dai media e da narrazioni catastrofiche, mentre l’ultima, quella degli elefanti, che è l’unica che dovrebbe apparirci mostruosa per ciò che implica (sfruttamento di animali) è salutata con gioia, divertimento, senso di meraviglia.

Partiamo dagli ultimi: sì, lo so, gli elefanti suscitano meraviglia perché sono animali splendidi e maestosi che non è facile vedere dal vivo, ma il nostro desiderio di ammirarli non può e non dovrebbe mai diventare più importante dei loro interessi di specie e di individui: vivere liberi dal dominio di chicchessia, che sia il circense, il regista famoso o lo zoo.

I circhi che ancora fanno uso di animali oggi sono da boicottare perché non esiste addestramento che non sia violento e non esiste una vita vissuta dentro gabbie e alienata dal proprio habitat naturale che non sia di prigionia e sofferenza.

E invece il regista romano Nanni Moretti cosa fa? Si fa mandare gli elefanti che gli servono per una scena del suo ultimo film, Il sol dell’avvenire, direttamente da due circhi, presumibilmente pagandoli, i circensi e, quel che più importa, continuando a legittimare, normalizzare, naturalizzare l’uso degli animali nei circhi, facendogli un bel po’ di pubblicità, dato che non è certo l’ultimo dei registi italiani.

Chissà se gli ha fatto un provino, prima. Si sarà assicurato che fossero abbastanza mansueti, buoni, con l’espressione non troppo triste, magari?

Già mi pare di sentire le giustificazioni a suon di frasi fatte quali “Sono trattati bene”, o, la più gettonata “Non possono essere reimmessi in natura” (sottotesto: tanto vale continuare a usarli). E poi, “Il film è ambientato tra gli anni cinquanta e settanta”. E dunque? Va bene rispettare il realismo storico (cancel culture, lungi da me), ma oggi per fortuna esistono mezzi tecnici con cui riprodurre sullo schermo animali che sembrano veri ma non lo sono, senza bisogno di usare animali selvatici che sicuramente non provano piacere nell’eseguire ordini frutto di addestramento sempre violento perché è soppressione della loro natura e costrizione nell’eseguire esercizi antropomorfizzanti.

Infatti non è chi vorrebbe rispettare gli animali che li antropomorfizza, bensì chi li sfrutta nei circhi e chi si diverte nel vederli saltellare o sfilare nel centro di Roma, in mezzo a rumori assordanti, smog e traffico.

“Gli animalisti insorgono”, titolano i giornali.

Sempre questi cattivi degli animalisti. Già, perché se tanto una pratica esiste, perché mai dovremmo preoccuparci di farla finire noi, perché assumerci le nostre responsabilità individuali, perché scegliere di non esserne più complici (tanto è il sistema che va cambiato, no?). E allora, mi raccomando, che si facciano sfilare in mezzo a bandierine rosse d’ordinanza, gli animali non sono mica soggetti oppressi, no, che vuoi che sia, sono solo oggetti animati, risorse rinnovabili, al massimo schiavi da trattare un pochino meglio.

Obiezione: gli animali selvatici usati nei circhi, invece, possono essere messi finalmente a riposo, dopo una vita di vessazioni e stress, perché esistono rifugi che possono accoglierli. E forse evitando di essere complici di chi li sfrutta e di fargli pubblicità, magari il settore va in crisi e finalmente finisce questo spettacolo orribile che abitua grandi e piccini al dominio sugli altri animali.

Ci sono cose più importanti cui pensare? Non è un argomento perché si può continuare comunque a dedicarsi alle proprie cause senza finanziare i circhi e senza promuoverli, non è che una cosa esclude l’altra.

Riguardo gli altri animali da me citati all’inizio, invece, si verifica esattamente l’opposto a livello di percezione pubblica.

Le persone sono infastidite e le amministrazioni che si susseguono non fanno che mettere in atto la solita politica violenta di abbattimento.

Sottoscritto dall’ex sindaca Raggi, Comune di Roma e Zingaretti, Regione Lazio, il protocollo di abbattimento dei cinghiali che escono dalle Riserve Naturali, per poi macellarne le carni; l’attuale sindaco Gualtieri non solo non cambia politica, ma addirittura rilancia con un piano di abbattimento a tappeto con la scusa di aver trovato un caso di peste suina.

In questi anni sono state tante e diversificate le soluzioni offerte per risolvere la questione dei cinghiali – scrivo questione e non problema; soluzioni che vanno da progetti semplici e facilmente attuabili quali recintare i punti scoperti della Riserva (detto in altre parole: riparare dei semplicissimi buchi nella rete), a quelli di attuare un piano di sterilizzazioni, fino a pensare seriamente a una politica di rispetto degli animali; leggasi: vietare la caccia perché l’aumento della popolazione dei cinghiali è provocato dai cacciatori che uccidendo le femmine matriarche fanno aumentare la riproduzione delle altre. I cacciatori creano “il problema” per poi avere la scusa di volerlo risolvere. Come? Uccidendo, ancora e ancora e così aumentando la riproduzione delle femmine rimaste, causando un aumento incontrollato delle nascite.

Dicevo, questione cinghiali e non problema perché comunque i cinghiali sono animali pacifici, per niente aggressivi, si avvicinano ai centri urbani in cerca di cibo (ah, altra soluzione offerta in questi anni: ripulire le strade, ovviamente). Stiamo parlando di cinghiali, non di tigri affamate.

I cinghiali, come tutti gli animali – TUTTI, noi compresi! – diventano aggressivi solo se si sentono minacciati, se la loro prole è in pericolo (come farebbe qualsiasi madre umana e di ogni altra specie), se inseguiti, bastonati, nel mirino di fucili e altre armi.

Alimentare la paura degli animali selvatici, agrizoofobia, per mera strumentalizzazione politica e per guadagnare qualche clic in più è un comportamento disonesto intellettualmente e, nel migliore dei casi, che denota ignoranza; esserne vittime, come del resto del più generale e diffuso sentimento di paura nei confronti di tutti gli animali, teriofobia, invece, se comprensibile (nel senso: ci possono essere spiegazioni di natura antropologica o psicologica, quasi sempre culturale, ossia di diffusione di credenze e pregiudizi assimilati senza averli mai messi in discussione), non può essere più un pretesto per giustificare la violenza e le mattanze; dovremmo aver capito da un bel po’ che non siamo l’unica specie intelligente e senziente sulla terra e che milioni di altri individui diversi da noi esistono per loro stessi e non per soddisfare i nostri interessi, che siano di profitto o legati a tradizioni e abitudini.

Aver paura, anche quando non ce n’è motivo (ma del resto esistono le fobie più assurde) è un conto, voler uccidere un altro.

Stesso discorso per i gabbiani, fino a qualche anno fa nemici pubblici numero uno di Roma, poi soppiantati dai cinghiali, idem per le nutrie e per i gatti liberi, che siano in colonie regolarmente denunciate in Comune o se individui liberi e basta.

La signora a passeggio con il cagnolino che si infastidisce quando vede dei gatti nutriti dalla persona che se ne occupa dovrebbe per esempio chiedersi cosa significhi “troppi”. In relazione a cosa, a chi? C’è un numero esatto di individui non umani che può abitare il pianeta per nostra gentile concessione quando noi invece continuiamo a distruggere risorse, a inquinare, desertificare, bruciare, consumare terreni, corpi, volti, zampe, sentimenti, emozioni, tutto ciò che si muove?

La teriofobia e l’agrizoofobia hanno radici lontane immerse in un terreno di ignoranza riguardo gli altri animali per scarse e nulle conoscenze scientifiche. Sono come la superstizione, ciò che rimane, di spiegazioni magiche e che venendo tramandato di generazione in generazione continua a persistere.

Però non stiamo parlando di rituali quali incrociare le dita per scaramanzia, ma di altri individui senzienti che come noi hanno diritto di vivere, hanno esperienza del reale e provano sentimenti ed emozioni.

Abbiamo paura degli animali liberi perché culturalmente ci hanno insegnato che sia giusto dominarli, allevarli, usarli, consumarli oppure rinchiuderli in gabbia per meglio osservarli (o usarli come scenario di un film o per far divertire i bambini).

Questa cultura è basata su un assunto sbagliato, ossia che le altre specie siano inferiori. Temiamo persino la parte animale di noi stessi, la disconosciamo, ci distanziamo ontologicamente raccontandoci che siamo altro, la specie più intelligente.

E se ci raccontassimo tutto ciò solo nella speranza di sconfiggere la nostra stessa mortalità perché uccidendo l’altro, il diverso per eccellenza culturalmente, ci illudiamo di sfuggire al Moloch che esige il suo sacrificio quotidiano?

E dunque dobbiamo decidere un po’ chi vogliamo essere: se specie evoluta intellettualmente che usa in modo sensato le conoscenze scientifiche e tecniche includendo gli altri animali in una morale di rispetto e nonviolenza; o se invece vogliamo restare quegli esseri primordiali in preda al panico che uccidevano per non farsi uccidere e che attribuivano funzioni magico-religiose al resto del vivente o si raccontavano e costruivano mitologie per dare un senso alla complessità del cosmo.

Vestire elefanti di rosso e farli montare da attori non ci rende più intelligenti, né più artisti; uccidere cinghiali non ci rende più umani, ma solo più violenti.

Cinghiali, gatti, gabbiani, nutrie, piccioni e altri animali selvatici vivono a Roma e questo lo dobbiamo accettare. Gli elefanti invece non avrebbero mai dovuto esserci portati. E questo lo dobbiamo capire.

(Immagine di Andrea Festa)