di Rita Ciatti.
È ufficiale la notizia del ripristino della fucilazione per la pena di morte nello Stato della Carolina del Sud.
La pratica era già stata reintrodotta lo scorso maggio a causa delle difficoltà a reperire il mix di farmaci necessari per l’iniezione letale, dato che molte case farmaceutiche ne hanno vietato l’esportazione negli Stati Uniti per motivi umanitari.
Tra i promotori e principali sostenitori della fucilazione, il senatore democratico Dick Harpootlian, ex pubblico ministero e ora avvocato penalista, il quale dichiara che l’uccisione per fucilazione è “il metodo meno doloroso e più umano che esista”.
Questi i fatti, agghiaccianti a dir poco; agghiacciante come può esserlo qualsiasi discussione intorno alle modalità di uccisione di un individuo senziente anziché sulla legittimità o meno della pratica in sé.
Le espressioni “uccisione indolore” o “uccisione umana” ci ricordano inoltre assai da vicino quelle di “macellazione umanitaria” o “allevamento etico” in riferimento agli altri animali; anche in questo caso la domanda che dovremmo porci non è quale metodo sia da considerarsi migliore, ma se sia lecito o meno imprigionare, sfruttare e uccidere individui senzienti nati, a quanto pare, con la colpa di appartenere a specie diverse dalla nostra.
Quando usiamo l’aggettivo “umano” o “umanitario” per definire pratiche di uccisione, cosa stiamo dicendo in realtà? Non stiamo forse dicendo che uno dei segni distintivi del nostro essere umani sia appunto quello di uccidere, di decidere di togliere il bene più prezioso di qualsiasi essere vivente senziente, ossia quello che è, tautologicamente, il suo interesse precipuo, ossia vivere?
Stiamo dicendo esattamente questo. A dispetto della differenza ontologica cui ci piace tanto ricorrere per definirci superiori agli altri animali, in realtà abbiamo costruito un sistema in cui uccidere non è mera necessità legata alla sopravvivenza come per le specie carnivore, ma ideologia, cultura, istituzione politica e giuridica.
Detto in altre parole: noi siamo animali che uccidono per ideologia e non per necessità.
In una prospettiva laica è facile distinguere tra male e bene. Il bene è il rispetto degli interessi di un individuo senziente, mentre il male è il danno inflitto a un essere vivente o la negazione di alcuni suoi interessi principali; il diritto di vivere può essere senz’altro ritenuto l’interesse più importante (a meno che non vi siano delle condizioni patologiche di enorme sofferenza e per le quali il soggetto stesso esprima il desiderio di voler morire).
La pena di morte è una condanna barbara perché appunto lede l’interesse principale di un individuo.
In uno Stato di diritto la condanna dovrebbe essere riabilitativa e non punitiva. Inoltre i dati del sistema giudiziario statunitense ci dicono due cose: la prima, che esiste pur sempre un margine d’errore nel giudicare la colpevolezza di un imputato; la seconda, che nel braccio della morte ci finiscono soprattutto le persone afroamericane povere e che vivono ai margini della società, cioè che non possono permettersi di pagare una difesa adeguata.
In alcuni Stati del Sud inoltre il razzismo è ancora molto diffuso e le persone afroamericane vengono spesso accusate di aver perpetrato crimini che in realtà non hanno commesso, cioè accusati dietro false testimonianze.
La pena di morte non funziona nemmeno come deterrente perché l’unico deterrente contro i crimini in una società che voglia dirsi civile può essere solo il miglioramento della società stessa, cioè una società che offra pari opportunità, che sia inclusiva e che aiuti con seri programmi di sostegno, istruzione, lavoro le persone più svantaggiate. Una società equa in realtà non dovrebbe nemmeno avere al suo interno “persone svantaggiate” perché l’errata distribuzione delle risorse avviene quando queste sono concentrate nelle mani di pochi che sfruttano molti.
Una società che ha al suo interno dei contenitori di violenza legalizzata quali mattatoi, laboratori di vivisezione, prigioni con braccio della morte e che autorizza il possesso di armi, la caccia e la pesca è una società intrinsecamente violenta. Una società che favorisce la concentrazione di beni nelle mani di poche persone e che quindi crea le condizioni affinché queste possano a loro vantaggio usare, sfruttare e ricattare economicamente la popolazione è una società intrinsecamente iniqua e violenta.
Una società che istituisce la pena di morte per ideologia e che uccide perché, sempre per ideologia, ritiene gli interessi di alcuni individui inferiori di quelli di altri, è una società intrinsecamente violenta.
Non c’è peggior violenza di quella protetta dalle leggi, quindi “normata” e poi normalizzata e naturalizzata, di quella compiuta all’interno di istituzioni e per mano dello Stato.
La pena di morte è l’apice, simbolico e reale, della violenza di Stato.
Nei confronti degli animali non umani è una pratica addirittura invisibile poiché non percepibile nel suo orrore e portata avanti con il consenso dei più.
Per gli altri animali siamo tutti la Carolina del Sud.
(Immagine: “This is Not America” di Andrea Festa)