di Andrea Festa.
I fatti sono noti: Daniel Paul Schreber, figlio di un rigido educatore inventore di strumenti di correzione che ricordano tanto quelli di tortura, lui figlio di cotanto padre, divenuto giurista e presidente della corte d’Appello a Dresda, iniziò ad avere delle fantasie: che sarebbe stato bello essere donna ed essere sottoposto (sic) al congiungimento carnale. Quando era solo, si acconciava “con la parte superiore del torso nuda, adorno di vezzi femminili”1.
Tutto ciò nel suo Memorie di un malato di nervi (Denkwürdigkeiten eines Nervenkranken, 1903)2, libro che scrisse per “discolparsi” dall’accusa di essere pazzo. Perché Schreber non si fermò lì, fantasticò di un’elaborata, complicata cosmogonia e teologia di cui lui era elemento centrale.
Mentre era in una piena e franca transizione che non poteva accettare, e non accettava per imposizione della società e della figura paterna di cui era figlio e della loro morale bacchettona.
Su questo ci costruirono sopra una teoria della paranoia (Freud) facendolo entrare, verrebbe da dire di diritto, tra i suoi cinque grandi casi clinici dopo “suggerimento” di Jung; una manifestazione di paternità negata attenta al linguaggio usato dal presidente quanto al cuore del problema (Lacan); persino una visione politica del potere (Canetti) e di critica al capitalismo (Deleuze).
Eppure Schreber desiderava sostanzialmente – stando ad alcuni – immolarsi ritualmente nell’ambito di una gnosi visto che il suo medico prof. Flechsig durante una permanenza in clinica voleva, secondo lui, possederlo e di fatto tendeva a volerne corrompere – e forse sottilmente consumare il corpo immortale e destinato a redimere il mondo; senonché dei fantomatici raggi divini irradiandolo in qualche maniera miracolosa lo reintegravano volta dopo volta nella sua intierezza e sconvolgevano i malvagi propositi del medico e anche di Dio (che c’entra sempre).
Di quel che di fatto era un immaginario (auto?)cannibalismo rituale (“fino al punto del mio sacrificio personale”).
Ne parla lui nelle Memorie, ne parla Freud tutto teso a definire ciò che era prima chiamata dementia praecox ma ne parla anche R. Calasso nel suo primo libro, e romanzo (L’impuro folle, 1974, edito per i tipi dell’Adelphi3) che narra del suo “tripudio inquietante dei Doppi”.
Schreber terreno e Schreber donna, Schreber divino e Schreber destinato alla copula dal suo curante (vista come violenza sessuale, il che è paradigmatico di una sessualità affatto liberata), Schreber con gli organi interni che viveva “senza stomaco né intestini, quasi senza polmoni, con l’esofago lacerato, privo di vescica e con le costole fracassate”4.
Ci sarebbe allora qui da riflettere, argomento tra gli argomenti, di antispecismo e dell’antifrasi che macellare carne umana, anche la propria e persino simbolicamente, sia inaccettabile ma consumare fisicamente quella degli altri animali sia lecito, dovuto, sano, fortificante: ma finiremmo col discutere dell’“etica” del dott. Lecter; e fors’anche – pel sacrificio – di M. Blondet nella sua critica alla ricordata casa editrice e ai suoi apprezzatori (i phil-Adelphi, per il giornalista tradizionalista).
Limitiamoci a dire che oggi un percorso come quello di Schreber utilmente iniziato sarebbe certamente tutelato da un DDL Zan del quale tra pandemie e orrende guerre si son perse le tracce e comunque sarebbe felicemente entrato a far parte della comunità LGBTQIA+ senza le attenzioni di tutti quei celebri personaggi. E allora perché tutti quegli illustri individui han fatto del corpo e soprattutto della mente di Schreber materia delle loro dotte disquisizioni, agoni artistici, carburante, cibo per splendide carriere?
Ancora una volta, il più lucido è stato, a suo tempo, il fondatore dell’Adelphi (con Foà e “Bobi” Bazlen sul cui ultimo ci sarebbe da scrivere un romanzo, oltre quanto ha vergato lo stesso Calasso), per il quale il presidente Schreber oscilla dal “ruolo di Sophia gnostica a quella più sobria di magistrato sassone a riposo”5. A riposo per modo di dire, nella febbrile costruzione della sua mente agitata, forse agiata – crogiolantesi nelle sue affascinanti fantasie – e, nella sua prospettazione, agìta da terribili forze a lui ostili, impuro folle che “non è guarito”.
Eppure dobbiamo contraddire, da assoluti profani: Schreber non è un non guarito, no. Non è mai stato malato. Non delle malattie imputategli. Schreber è innocente. Come ogni malato, verrebbe da dire: ma le teorie per cui i devianti, almeno di psicopatologie violente, vengono condannati in moltissimi Paesi, e la difesa d’ufficio che con la pubblicazione del libro surricordato Schreber tentò per evitare il manicomio, peraltro con successo, si intrecciano in un mischietto che oscilla tra basagliana memoria, giustizialismo determinista a tutti i costi e calassiane attribuite sporcizie, impudicizie.
Quel che ne viene fuori è la figura di un essere umano complesso, come ogni essere umano lo è del resto; con le sue fantasie, i manierismi, i tic, tutte le deviazioni, quante ne ha per dirla alla Vasco Rossi: a volte inespresse, altre volte patenti, che ci ha lasciato – con le Memorie – un documento di eccezionale valore e, come è stato detto, il testo più commentato nel Novecento di un, asserito e qui sempre denegato, malato mentale6.
(Immagine mia, elaborazione speculare e doppio di D. P. Schreber da una foto del medesimo)
1 S. Freud, Casi clinici, Newton Compton, 1994, pag. 246;
2 www.adelphi.it/libro/9788845902024 ;
3 www.adelphi.it/libro/9788845900877 ;
4 S. Freud, op. cit., pag. 243;
5 Ancora www.adelphi.it/libro/9788845900877 ;