di Rita Ciatti.
Si parla molto di lingua inclusiva e della necessità di trovare un nuovo genere grammaticale che superi il femminile e maschile per includere anche le persone non binarie, cioè quelle persone che non si riconoscono nel genere maschile e nemmeno in quello femminile (e questo a prescindere dal sesso di nascita. Sesso e identità di genere sono due concetti diversi).
Parte del movimento attento ai diritti lgbtq+ ha proposto così l’adozione del cosiddetto schwa, una lettera che si scrive come una e rovesciata – ə – e si pronuncia come una vocale intermedia il cui suono si pone esattamente a metà tra le vocali esistenti.
L’adozione di una nuova lettera e di un nuovo suono probabilmente non costituisce un problema per le persone giovani che conoscono quasi sicuramente l’inglese o magari anche altre lingue, abituate quindi a suoni e grafemi diversi da quelli dell’italiano, ma potrebbe esserlo per quelle di una certa età o per chi soffre di dislessia.
Onestamente devo ammettere che anche io faccio una certa fatica a leggere i testi che contengono lo schwa.
I nostri occhi e la nostra mente sono abituati a riconoscere le lettere usuali e se in un testo se ne introduce una nuova, che per di più si scrive come una conosciuta, la e, ma a rovescio, il tutto può risultare visivamente faticoso. Una proposta che crea questo tipo di problema non può essere una soluzione.
D’altra parte non me la sento di liquidare in toto una proposta di una lingua più inclusiva perché non vorrei mai che le persone cui mi rivolgo si sentissero escluse dai discorsi.
Cosa fare allora?
Penso che un buon compromesso potrebbe essere l’adozione di un femminile inclusivo in riferimento al sostantivo “persona”, che come tale è un termine abbastanza neutro; per persona si potrebbe quindi intendere tanto una persona che si riconosce nel genere maschile, quanto una che si riconosce nel genere femminile così come tutte quelle che non si riconoscono nel maschile e nel femminile (non binarie).
Alla fine la lingua è un insieme di segni scritti e fonetici convenzionali, quindi basterebbe dichiarare una volta per tutte che il femminile include entrambi i generi e anche coloro che non vogliono riconoscersi in alcun genere.
La proposta è quindi di non cambiare la morfologia della nostra lingua, ma di stabilire convenzionalmente che il genere femminile includa anche il maschile e quello non binario.
Risolto questo, c’è qualcosa che mi preme dire e che trovo assai più interessante delle discussioni attorno allo schwa.
Le lingue si evolvono, è vero, ma molto lentalmente; quello che si evolve velocemente, talvolta nel giro di una stagione o di pochi anni, è il vocabolario linguistico, cioè l’insieme di termini che usiamo per comunicare.
Se vogliamo combattere le discriminazioni dobbiamo andare a vedere quali sono quei termini che oggi, con i cambiamenti culturali, non sono più ritenuti appropriati e anche sforzarci di eliminare quelli che per abitudine e poca immaginazione continuiamo a usare così rafforzando determinate forme di oppressione e discriminazione. Termini che forse un tempo avevano avuto un senso, ma che oggi non possono più dirsi rappresentativi di ciò che vogliamo indicare perché la nostra sensibilità è cambiata o perché vogliamo che cambi.
Alcuni esempi: perché per offendere qualcuno ricorriamo a nomi comuni di animali quali “maiale”, “porco”, “asino”, “capra”, “verme”, “topo di fogna” oppure, se è una donna “troia”, “maiala”, “zoccola”?
Nella nostra cultura dare a qualcuno del maiale o dell’animale in generale è ritenuto offensivo per due motivi: il primo, e più importante, è perché il valore ontologico degli altri animali è ritenuto inferiore al nostro; il secondo è perché quando rappresentiamo e narriamo gli altri animali ci affidiamo tendenzialmente a una serie di pregiudizi e credenze e cioè che sarebbero sporchi, stupidi o aggressivi, anche quando l’etologia ci dice il contrario e smentisce tutto ciò che avevamo sempre creduto di sapere di alcune specie. Abbiamo inoltre un’idea antropocentrica del concetto di intelligenza e riconosciamo come tali, cioè intelligenti solo quei comportamenti che assomigliamo ai nostri; in pratica quando comunichiamo usiamo un linguaggio antropocentrico e specista.
Nel continuare a usare nomi comuni di animali per offendere persone umane continuiamo a rafforzare le menzogne e i pregiudizi sugli animali così reiterando lo specismo, ossia la discriminazione morale basata sulla differenza di specie. Oggi per fortuna la nostra sensibilità sta leggermente cambiando e alcune persone trovano offensivo non già definire qualcuno maiale, ma che si ricorra sempre al maiale – che è tra gli animali più sfruttati al mondo, quindi una vittima, un oppresso, un individuo usato e ucciso per essere trasformato in prodotto – per connotare qualcuno negativamente, soprattutto tenendo conto del fatto che identificare i comportamenti umani che riteniamo moralmente sbagliati con quelli dei maiali è proprio etologicamente errato, essendo specie diverse con necessità diverse.
Il tentativo rivoluzionario e virtuoso è quello di costruire nuove narrazioni attorno agli altri animali, che non siano più discriminanti e che spazzino via tutti i pregiudizi che sono alla base dell’idea che abbiamo di loro e che abbiamo interiorizzato nel corso del nostro apprendimento culturale anche proprio grazie ad alcuni termini.
Ovviamente non è che una cultura specista si decostruisce solo attraverso una decostruzione linguistica, ma smettere di usare termini che si riferiscono a luoghi comuni falsi può certamente aiutare nella creazione di nuovi significati associati a certi termini. Si tratterebbe quindi di cambiare il significato che diamo ad alcuni termini smettendo di usarli per offendersi o per connotare qualcuno negativamente.
Un altro termine che spesso usiamo per offendere le donne è “puttana” o “prostituta”. La domanda che dovremmo farci è: perché consideriamo spregiativo il termine “puttana” o “prostituta” e perché lo usiamo per offendere le donne? Le prostitute sono donne che non hanno avuto i nostri stessi privilegi, nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, sono donne sfruttate vittime di tratta.
Certamente c’è da lavorare nel profondo affinché anche a voler usare il termine nell’accezione di “donna con vita sessuale promiscua e attiva” esso non costituisca più motivo di offesa, giacché giudicare moralmente una persona per le proprie abitudini sessuali è pratica maschilista e patriarcale, ma bisogna in primo luogo eliminare lo stigma che ruota attorno al termine “prostituta” cambiandone il significato.
Dovremmo essere solidali con le donne prostituite, non usarle come esempio negativo per offendere qualcuna.
Infatti oltre che sessista, il termine usato con intento spregiativo, è per di più classista e anche xenofobo, dal momento che sulla strada quasi sempre ci finiscono le donne immigrate.
Altro gruppo di termini che dobbiamo smettere di usare per offendere qualcuno è quello che si riferisce alle persone con disabilità fisica o mentale.
L’abilismo, al pari dello specismo, razzismo, sessismo, maschilismo o altre forme di discriminazione e oppressione, è spesso rafforzato e mantenuto in vita tramite l’adozione e uso di determinati termini.
Non usare più certi termini non è semplicemente o banalmente un discorso di “politically correct”, ma è un’operazione profonda di volontà politica mirata al cambiamento di significati; con l’acquisizione di una diversa sensibilità è necessario aggiornare il vocabolario. Non si tratta quindi di censurare il linguaggio, ma di combattere discriminazioni e oppressioni nel momento in cui alcuni termini sono usati per denigrare alcune categorie di persone o comunque altri individui.
Il modo più efficace per combattere le oppressioni da un punto di vista linguistico quindi è smettere di usare quei termini che riflettono dei pregiudizi ormai abbattuti o che si ritiene di dover abbattere.
Possiamo dimostrarci più inclusivi senza stravolgere morfologicamente la nostra lingua, ma rinnovandola profondamente nel vocabolario.
(Immagine di Andrea Festa)